Lo scorso venerdì sono stata a cinema a vedere Ghost in the Shell, adattamento cinematografico di matrice hollywoodiana del celebre omonimo fumetto di Masamune Shirow del 1989, che era stato già trasposto in due film d’animazione, tre serie animate, e due speciali. Questo film, per la regia di Rupert Sanders, nelle sale dal 30 marzo, è stato il primo live-action dedicato al brand.

In tutta onestà, partivo prevenuta prima della visione per tre motivi:

  1. alcuni amici lo avevano visto proprio il giorno prima di quando ho deciso di farlo io, e lo avevano descritto in maniera molto critica, demolendolo completamente e definendolo inguardabile;
  2. conoscendo l’opera originale, credevo sarebbe stato difficile concentrare nelle tempistiche di un film concetti così complessi e profondi quali quelli trasmessi tanto dal manga quanto dall’anime;
  3. avevo già riscontrato la tendenza americana di snaturare opere di origine straniera, nel rielaborarle, sminuendone i concetti alla base ed appiattendo tutto perché fosse fruibile da un pubblico più ampio, magari focalizzandosi sul lato estetico, ma riducendo all’osso il significato e la riflessione.

Ebbene, dopo la proiezione, posso dire che alcune delle mie titubanze avevano fondamento: questo Ghost in the Shell è in effetti uno spettacolo per gli occhi, e non solo per la bella Scarlett Johansson che interpreta la protagonista, il Maggiore Mira Killian, ma per gli effetti speciali e la rappresentazione dell’ambientazione futuristica/cyberpunk. Ma non è molto più di questo.

 

Cos’è davvero questo Ghost in the Shell

Quello che Sanders ha fatto, è stato estrapolare dall’originario Ghost in the Shell l’ambientazione ed i protagonisti, e calarli in qualcos’altro. La storia non è né quella del fumetto né quella dei film di animazione, niente Signore dei Pupazzi, anche se alcuni elementi del primo capitolo, come l’hacking di alcuni robot e di alcuni umani con impianti cibernetici, vengono ripresi.

In un certo senso si può considerare questa pellicola come un prequel del primo fumetto e del primo film di animazione, è ambientata un anno dopo la sostituzione del corpo del Maggiore, che sa di aver avuto un incidente in cui è stata danneggiata completamente, cervello a parte, ed ha perso i familiari. Ma qualcosa non le torna, di tanto in tanto ha brevi episodi di allucinazioni che risalgono alla sua vita di prima, e che la portano a non credere che quanto le era stato riferito, fosse del tutto vero.

Tutto il film ruota attorno al tentativo di comprensione delle origini di Mira, e solo sul finale, assieme ai ricordi, assieme alla verità, riemerge il suo vero nome, Motoko Kusanagi.

L’idea di esplorare le origini della protagonista di Ghost in the Shell non è di per sé malvagia, anche se emergono varie incongruenze con la Motoko delle opere originarie. Ciò che maggiormente si avverte è un senso di incompiutezza, è come se si sfiorassero solamente i temi portanti per cui Shirow è diventato celebre, senza però sviscerarli ed esplicarli a dovere. C’è la riflessione sull’andamento ipertecnologico della società, c’è tra le righe il dubbio “dove arriveremo, continuando così e a questo ritmo?”, c’è il quesito etico, ma non ci sono né una parvenza di risposta, né di elaborazione del problema, come non si arriva proprio alle domande focali. Può una intelligenza artificiale estremamente sofisticata arrivare a sviluppare una coscienza propria? Può un essere umano il cui corpo è stato sostituito totalmente da impianti artificiali, essere ancora considerato davvero umano? Dov’è il confine per essere definiti senzienti e cos’è davvero l’anima, o ghost?

L’altra nota molto stonata è la rivisitazione parziale dei personaggi. Batou ha anche in questa trasposizione una compagnia canina, ma se nel Ghost in the Shell delle origini questo legame rappresenta un’anomalia rispetto al freddo raziocinio che caratterizza il soldato, qui è solo un elemento accessorio che caratterizza un soggetto già emotivo. Nelle immagini promozionali il volto freddo e statuario della Johansson, a dispetto di tutte le critiche di whitewashing, secondo me è molto in linea con il personaggio di Mira/Motoko, tuttavia nella recitazione spesso la sua espressività, nonché alcune cose che le fanno dire, stridono.

In conclusione: se siete veri fan della saga probabilmente vorrete vederlo, ma è altrettanto probabile che vi lascerà con l’amaro in bocca. Se siete solo simpatizzanti in grado di non cavillare sulle differenze con ciò che è venuto prima, o semplicemente curiosi, potreste trovarlo godibile, per quanto non certo un capolavoro.